Le sue opere trattano alcuni dei simboli della cultura occidentale come il denim, il Manchester United e l’hip hop, che l’artista trasforma in viaggi verso il misterioso mischiandoli con la cultura Thai. L’estetica dei suoi dipinti s’ispira molto all’espressionismo astratto, ma lo distorce prendendo come suo punto di partenzail fatto di essere apparso a Thailand Got Talent come cubista-body painter. Eppure il lavoro di Korakrit non parla di post-colonialismo o di identità politica, ma trova il suo posto là dove si intersecano le storie di due culture diverse che esistono fianco a fianco nel nostro mondo. La sua forza è l’umorismo, l’ingenuità giocosa e l’incanto visivo che stimola. Lo abbiamo incontrato seduto su una delle poltrone da massaggio dell’installazione, al ritorno dalla sua performance al Museo d’Arte Moderna di Varsavia.
Quindi sei appena tornato dal Museo d’Arte Moderna di Varsavia dove hai fatto una performance. La lista dei nomi di questa mostra comprende in pratica tutti gli artisti che sono oggi considerati la generazione dell’arte post-internet. Ti senti parte di questa scena?
Credo di sì. È difficile da dire dire. La mostra era così grande, ma penso che se avessi guardato su Facebook avrei trovato circa cento amici in comune con tutti gli artisti che hanno partecipato. È una cosa strana. Penso che nel mondo dell’arte un certo tipo di sottocultura sia cresciuta, sia diventata molto più internazionale e sia collegata ai social. In questo modo le persone si guardano una con l’altra e il loro network si ingrandisce. Il concetto di Post-Internet ci racconta soprattutto come l’arte si è trasformata dopo un preciso indicatore nel tempo, che credo sia la tecnologia e poi un genere.
Pensi che la differenza principale tra il tuo lavoro e quello di altri artisti considerati post- internet sia il modo in cui il tuo lavoro esplora e tratta la cultura Thai?
Non credo che il mio lavoro sia molto diverso degli altri artisti in mostra. Il contenuto del mio lavoro è in sostanza la storia della mia vita, che è un tema molto semplice e universale. C’è una differenza però: vivo tra la Thailandia e l’America, ma il contenuto del mio lavoro proviene spesso dalla mia vita in Thailandia. Questo è molto diverso, ma direi che non sia ciò che mi rende diverso perché stiamo tutti lavorando sul contemporaneo. Sia che si tratti di produrre un dipinto, un video o un’installazione.
Quanto sei esposto all’arte contemporanea crescendo in Thailandia?
Non sono cresciuto in una famiglia di artisti e quindi non c’è stato un momento in cui mi sono ritrovato improvvisamente nel mondo dell’arte contemporanea né la leggevo sulle riviste. In realtà mi era abbastanza estranea. Tutto è iniziato quando mi sono trasferito a Rhode Island per studiare arte.
Allora, chi sono stati i primi artisti che ti sono piaciuti?
Sono andato alla scuola d’arte per studiare design, ma dopo due settimane ho cambiato indirizzo e mi sono iscritto al corso di incisione. È andata così. Rhode Island aveva una fortissima scena musicale. C’era questo collettivo chiamato Fort Thunder. Era un magazzino utopistico dove tutti vivevano, lavoravano e mettevano su show rumorosi. Sono stato molto influenzato da loro sull’arte come stile di vita. Comunque il primo artista che mi è davvero piaciuto è Hieronymus Bosch.
Ho letto che facevi parte di un gruppo hip hop a Bangkok. Questo si vede anche nella tua pratica.
Era un gruppo hip hop della scuola superiore, ho cantato rap e ho prodotto alcuni mixtape, ma direi che lo faccio molto di più ora che nel passato. Come la mia performance al MoMA PS1 dove ho rappato davanti a 700 persone. Questo è stato molto più tangibile rispetto a quando lo facevo al liceo, anche se ormai è presentato in un contesto ‘artistico’.
Sono molto interessato al modo in cui il tuo lavoro utilizza i simboli occidentali e li altera in qualcosa di molto inquietante.
Per me è come un ritorno, perché sono cresciuto con questi simboli. Ho vissuto in una metropoli asiatica guardando la tv americana e avevo dei giocatoli giapponesi. Poi quando a scuola giocavamo a calcio tutti volevano indossare la maglia del Manchester United. Probabilmente non era una situazione così diversa da quella delle persone cresciute in Inghilterra che guardavano la tv americana e tifavano per una squadra inglese. E a me piace questo tipo di esperienze condivise. Sto cercando di trovare cose che sono molto localizzate ma allo stesso tempo anche molto globali, come ad esempio i talent show.
Come hai iniziato a lavorare su questi dipinti?
Penso al lavoro come se fosse la storia di un artista, ed è divertente per me parlarne come se fosse una fiction perché non lo è. Ci sono però dei momenti in cui il dipinto assume questo ruolo. Volevo limitare ‘me stesso’ e diventare un autore che ha inventato un pittore. Poi avevo bisogno di trovare un materiale che fosse simbolico e che aperto si potesse usare al posto della tela. Questo è il denim, che contiene la storia dell’Occidente ma ormai è ovunque e genera la propria sottocultura anche se fa ancora riferimento alle sue origini. Penso che questo succeda anche nell’arte, che torna sempre alle sue origini nell’Occidente. E poi c’è il fuoco, che ha un significato così preciso e differente nelle diverse culture. È molto elementare.
Sembrano così trattati. Come si fa iniziare a lavorarli?
Per prima cosa il denim va sbiancato, poi bruciato e alla fine si scatta una foto che viene poi collocata sotto la pittura in modo che i fori dove i dipinti sono stati bruciati, con la parte del dipinto che manca, si sovrappongano. Si tratta di un dipinto creato da variazioni nella loro forma principale: lo sbiancamento, che è liquido, e poi il fuoco. Io lo chiamo “history painting”, che è una sorta di gioco su come il dipingere si riferisce sempre alla storia della pittura stessa. Questi dipinti sono realizzati attraverso la stratificazione della propria storia, di diverse azioni: denim, candeggina, body painting, fuoco, fotografia. Sono quasi allegorici per quanto riguarda il processo perché sono molto semplici. Funzionano proprio come un disco che rispecchia il racconto di ciò che accade nel video: il body painting, le giacche in denim bruciate, le foto del Tempio Bianco. È importante comprendere che la realizzazione di un lavoro è il lavoro stesso.
Qual è secondo te il punto centrale della mostra?
Penso sia il rapporto tra il video e la pittura. Come quando entri in un soggiorno con un gruppo di persone e vi mettete a guardare questo film, seduti sui mobili. Credo che un’idea, che è la spina dorsale di questa mostra, sia l’idea di abbinare il cubista-body painter di Thailand Got Talent con i dipinti del Tempio Bianco, dopo che l’artista thailandese Chalermchai Kositpipat in tv ha tanto criticato il body painting. La mostra sta cercando di mettere insieme due frammenti della Thailandia turistica, che apparentemente non vanno di pari passo: il ventre sessuale con gli ideali buddisti attraverso qualcosa di così estraneo a queste due idee, come la squadra del Manchester United. Penso che sia molto importante il modo in cui le opere tentano di collegare certe cose, soprattutto per quanto riguarda l’arte contemporanea in Thailandia, perché ha le sue origini nell’Occidente e ora c’è la necessità di riavviare questa conversazione.
Credits
Text Felix Petty
Photography Amber Grace-Dixon