Il team di i-D ha incontrato Takashi Murakami in occasione della première europea del suo primo film Jellyfish Eyes e della mostra Il ciclo di Arhat a Palazzo Reale a Milano. Murakami si presenta con il look spensierato di uno scolaretto giapponese in vacanza estiva in Italia e indossa un buffo cappello di peluche che ricorda Kurage-bo, la creatura fatastica a forma di medusa protagonista del suo lungometraggio. Qualcosa nel suo lavoro però è cambiato. Più che l’arte di un eterno adolescente sembra quella un distaccato e meditativo Piccolo Principe di Saint Exupery, come ci suggerisce il curatore della mostra Francesco Bonami. Murakami ha vissuto in prima persona, assieme a tutto il popolo giapponese, il trauma della tsunami del 2011 e il successivo disastro nucleare di Fukushima. Il “Superflat” ha lasciato il posto al “Superdeep”, ossia un super profondo. Nella serie finale di autoritratti l’artista sembra infatti sfidare lo sguardo del visitatore con la sua impassibilità, nonostante sia sul punto di sprofondare in un buco nero. Murakami sembra ora suggerirci che le risposte al senso ultimo della vita trascendono la natura stessa dell’uomo e vanno cercate oltre. Chissà, forse scoprendo il significato della materia oscura.
Quale pubblico cerca di raggiungere con Jellyfish Eyes?
L’obiettivo iniziale era di creare un film per bambini di età compresa tra 5 e 12 anni, ma quando l’ho mostrato al distributore in Giappone mi è stato detto che sarebbe stato difficile indirizzare il film su quella fascia d’età. Da qui la promozione del film si è focalizzata su un pubblico adulto, anche se la storia è stata pensata per i bambini.
Quindi i suoi spettatori ideale rimangono comunque i bambini?
Sì. Perché questa, diciamocelo, è una storia un po’ stupida. Molto semplice nella sua trama – alla fine arriva anche l’immancabile mostro. Tutto è stato davvero realizzato con un budget molto ristretto, sul modello di tanti altri film sci-fi. Sono cresciuto guardando quel tipo di programmi tv e di film, che erano esattamente come questo: molto stupidi e molto economici. Tuttavia sono convinto che esista una stretta connessione fra questo mondo e la nostra realtà.
Ci può fare un esempio ?
Quando ero giovane l’argomento più mediatico era la guerra del Vietnam. Ogni giorno era possibile vederne le immagini in tv. La stessa cosa accade oggi, in un momento storico in cui molti giovanissimi hanno accesso ad un’informazione ancora più frammentata dall’uso del web. Le domande che i bambini si pongono sono tuttavia sempre le stesso di allora: “Che cosa è questo? Che cosa è la guerra?”
Quali sono i suoi riferimenti culturali in questo film?
Come ho detto, una consistente parte della cultura visiva giapponese successiva alla fine della seconda guerra mondiale. Ma sto anche facendo un omaggio alla cultura sci-fi anni ’80 e ’90, in particolar modo ai film di Spielberg.
La sua pratica artistica si avvale di una vera e propria società creativa, Kaikai Kiki Co. e lavora con moltissimi assistenti nella produzione dei suoi complessi lavori. Che tipo di impatto ha lavorare con tanti giovani artisti?
A volte ho ricevuto idee molto fresche dai membri del mio team. È molto rassicurante vedere questa libertà di pensiero soprattutto in una generazione che è nota – almeno in Giappone – per seguire dei canoni molto mainstream. È sicuramente questo il motivo per cui mi piace questa collaborazione con giovani talenti. Ma lasciate che ve lo dica, coordinare così tanti creativi è anche un grande stress!
Ma sicuramente c’è quel momento speciale che ripaga di tutto lo stress…
L’organizzazione di una grande azienda è oggi molto difficile perché per le giovani generazioni, è così facile vedere molti comportamenti come un abuso di potere. Kaikai Kiki Co. è una società a tutti gli effetti, ma una società di tipo creativo. Formata da creativi, che sono spesso per loro natura disorganizzati. Il mio team è composto da circa 80 persone a tempo pieno, ma il team esteso potrebbe arrivare fino a 200. Non è facile far sì che tutti lavorino in sintonia, ma faccio del mio meglio.
Se un giovane sogna di lavorare per lei, cosa deve fare?
Tutti i miei collaboratori hanno studiato all’università o in una accademia di belle arti, e solitamente è in questo contesto che iniziano a sviluppare l’idea di una collaborazione. Teniamo un test annuale per nuove collaborazioni ed è così che si entra a far parte del mio team.
Oggi è possibile fare molto scouting di talenti su Facebook e su Instagram. Questa nuova dinamica è molto affascinante. Le piace navigare in rete?
Mi piace molto, ma se devo essere sincero non mi è ancora mai capitato di sfruttare la rete per trovare chi sto cercando. Probabilmente sono lontano dall’essere un nativo digitale.
Se potesse possedere un’opera d’arte del passato, quale sceglierebbe?
Gli schizzi originali di Star Wars!
L’arte è ancora un’occasione di meditazione o è solo diventata una forma di consumo?
Non direi esattamente meditazione, ma più un modo per rilassarsi o una forma di guarigione. Per questo motivo mi piacciono gli artisti outsider, perché parte del loro processo creativo è la totale libertà. La loro coscienza è davvero creativa e per certi aspetti sono molto lontani da noi. In questo modo l’esperienza dell’arte outsider è quasi come una vera guarigione dai problemi della vita quotidiana: quando guardi queste opere d’arte ti dimentichi tutto.
Sembra che la fase “Superflat” del suo lavoro sia conclusa in favore di un nuovo momento di espressione. Ma cosa è esattamente il “Superflat” ?
Il concetto di “Superflat” si è sviluppato dall’evoluzione della società giapponese. Dopo la seconda guerra mondiale i giapponesi hanno voluto abolire la rigida gerarchia che andava dall’imperatore ai lavoratori più umili, decidendo di appiattire la scala sociale. Il che di per se è una buona cosa, ma allo stesso tempo è molto innaturale. Educare, per esempio, i bambini seguendo questo principio porta ad una visione distorta della realtà. Per le persone brillanti questo concetto di flatness nella vita reale alla lunga diventa molto noioso mentre per le persone senza un’educazione diventa una scusa per per non dover migliorarsi.
Spesso gli essere umani si interrogano sull’ignoto guardando verso il cielo in cerca di una risposta. Le capita mai di cercare un segno?
Sono molto interessato a tutto ciò che è soprannaturale. In questo momento mi affascina molto l’esperienza mistica che certi astronauti avvertono durante le loro missioni, un misto fra scienza e religione. Questi scienziati tornano dallo spazio con una fede più forte perché si rendono conto che lo spazio è tutto e niente. La stessa cosa credo valga per gli UFO: è una questione di fede, perché non comprendiamo esattamente cosa siano e se esitano davvero.
Credits
Text Fabrizio Meris
Photography Hisayuki Amae